Il diritto alla Carta Docente è ormai da tempo riconosciuto come un elemento fondamentale della normativa sulla formazione e aggiornamento degli insegnanti. Eppure, nonostante le sentenze che ne sanciscono il diritto, si registrano casi in cui il Ministero dell’Istruzione e del Merito non dà esecuzione spontanea alle decisioni giudiziarie. 

Il problema, però, non finisce con il riconoscimento in tribunale. Sempre più spesso, infatti, si registra un fenomeno preoccupante: l’inerzia del Ministero dell’Istruzione e del Merito, che non dà esecuzione spontanea ai provvedimenti. In altre parole, anche dopo che un giudice ha stabilito il diritto di un insegnante a ricevere la Carta Docente per determinati anni scolastici, l’amministrazione non provvede automaticamente all’accredito delle somme dovute.

La giustizia, in questi casi, rischia di fermarsi a metà strada. Il docente ha dalla sua parte una sentenza definitiva, che dovrebbe bastare per veder riconosciuto il proprio diritto in tempi rapidi. Eppure, molto spesso, i soldi non arrivano. L’unica strada percorribile diventa allora un ricorso in ottemperanza, cioè un nuovo procedimento con cui il giudice viene chiamato a imporre materialmente all’Amministrazione l’esecuzione di ciò che aveva già ordinato.Diversi TAR hanno preso posizione su questa condotta del Ministero. In alcuni casi è stato fissato un termine preciso (ad esempio sessanta giorni) entro il quale l’amministrazione deve adempiere, con la minaccia di nominare un commissario ad acta incaricato di sostituirsi al Ministero. In altri casi sono state introdotte sanzioni economiche per ogni giorno di ritardo, a dimostrazione di come i giudici cerchino strumenti di pressione sempre più efficaci per rendere concrete le proprie decisioni.

Il ricorso in ottemperanza è la via giuridica che permette di trasformare una sentenza favorevole in un risultato concreto. Attraverso questo procedimento si chiede al giudice di imporre all’amministrazione l’esecuzione del provvedimento, fissando un termine entro cui adempiere. Rinunciare a chiedere l’ottemperanza significa, in pratica, lasciare che il diritto riconosciuto resti sospeso, senza alcuna utilità. Al contrario, intraprendere questa strada permette di:

  • ottenere in tempi più rapidi l’accredito delle somme spettanti;

  • costringere l’amministrazione a rispettare il giudicato;

  • vedersi riconosciuti anche interessi e spese legali, in caso di ulteriore inerzia.

Non si tratta solo di questioni formali. La mancata esecuzione di una sentenza definitiva mina il principio stesso di certezza del diritto e rischia di creare disparità tra docenti che, pur avendo ottenuto decisioni identiche, si trovano in situazioni diverse a seconda della rapidità (o della volontà) dell’amministrazione nell’adempiere.

Questa vicenda non riguarda soltanto la Carta Docente, ma più in generale il rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino. Ogni volta che un ente non dà esecuzione spontanea a una decisione definitiva, si incrina la fiducia nei confronti delle istituzioni. La scuola, in particolare, dovrebbe rappresentare un ambito di legalità e correttezza amministrativa, ma questi ritardi mostrano un volto diverso, fatto di inerzia e resistenze ingiustificate.

Il caso della Carta Docente dimostra che la partita del diritto non si chiude con una sentenza: il vero banco di prova è la sua esecuzione. Un diritto riconosciuto ma non reso effettivo resta lettera morta. Per i docenti coinvolti è un percorso lungo e spesso faticoso, ma le recenti decisioni dei tribunali hanno ribadito che esistono strumenti per far valere concretamente quanto stabilito. Resta però il nodo di fondo: finché l’amministrazione non imparerà a rispettare spontaneamente i giudicati, la distanza tra riconoscimento formale e giustizia sostanziale continuerà a pesare sulla vita di molti insegnanti.