Deve essere confermata l’illegittimità del licenziamento della lavoratrice originariamente ritenuta dalla Commissione medica totalmente inidonea a rendere la prestazione se le problematiche psichiche, all’epoca considerate rilevanti in relazione al giudizio reso, siano venute meno tanto da non richiedere più alcun intervento medico e farmacologico sulla dipendente.
Con questa motivazione la corte di Cassazione Sez. Lav., con sentenza del 17 gennaio 2024, n. 1794 ha accolto il ricorso della dipendente che era stata dispensata per inidoneità totale all’impiego. La sentenza in commento ha ad oggetto la legittimità del licenziamento irrogato ad una dipendente pubblica per inidoneità alla mansione in data 23 aprile 2019, a seguito dell’accertamento effettuato dalla competente Commissione medica all’esito della visita dell’8 maggio 2017. La Corte d’appello riformando la sentenza del Tribunale accoglieva il ricorso della lavoratrice e condannava il datore di lavoro a reintegrare la dipendente, corrispondendo altresì un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per il periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione. In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto non sussistesse più l’inidoneità alla base del licenziamento. Infatti, il giudizio della Commissione medica risale al 2017 e le problematiche psichiche, all’epoca considerate rilevanti in relazione al giudizio reso, erano venute meno, in base alla CTU espletata nel corso del giudizio, al momento del licenziamento (nel 2019, appunto). Avverso tale decisione proponeva ricorso il datore di lavoro adducendo, per quel che qui interessa, che la lavoratrice non si era opposta al giudizio della Commissione medica e ciò andava interpretato come acquiescenza rispetto al provvedimento. La Corte di cassazione ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso, infatti la mancata impugnazione dell’esito della visita di idoneità non può interpretarsi acquiescenza all’atto di recesso successivamente assunto dal datore di lavoro. Infatti, prosegue la Corte, il licenziamento irrogato avrebbe potuto ritenersi «necessitato esclusivamente nell’ipotesi, smentita all’esito dell’accertamento istruttorio, che la totale inidoneità lavorativa in origine diagnosticata permanesse alla data del recesso successivo di ben due anni».
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