La Corte di Cassazione, Sez. Lav. con ordinanza del 26 settembre 2023, n. 27363 ha affermato che al fine di stabilire la rilevanza di un addebito disciplinare e, dunque, l’esistenza o meno di una giusta causa di licenziamento è necessario e sufficiente che il giudice sia tenuto a vagliare tanto l’aspetto oggettivo quanto quello soggettivo, come l’intenzionalità, il grado più o meno accentuato di colpevolezza, la necessità di dimostrare il dolo o la colpa dell’agente, non potendosi prescindere da una valutazione complessiva delle circostanze concrete in cui si realizza la condotta contestata.
La vicenda giudiziaria in commento si riferisce ad un licenziamento per per giusta causa disposto nei confronti di un lavoratore, sulla scia di una serie di gravi elementi debitamente contestati, che facevano riferimento a due episodi in particolare: il primo avrebbe configurato sic et simpliciter un’ipotesi di molestie, per essere stato il dipendente accusato di aver palpeggiato una collega durante l’orario di lavoro; nel secondo episodio aveva invece rivolto dei commenti gravemente inopportuni e alla presenza di altri nei confronti di un’altra collega.
Il lavoratore impugnava il licenziamento e il Tribunale in accoglimento del ricorso dichiarava l’illegittimità del provvedimento espulsivo e contestualmente accordava al lavoratore la tutela prevista dall’art. 18, comma 4, st. lav., vale a dire la reintegrazione in servizio.
La Corte d’Appello a cui ha proposto ricorso il datore di lavoro riformava il dictum di primo grado e accertava la legittimità del licenziamento irrogato, condannando per l’effetto il lavoratore alla restituzione di tutte le somme ricevute a titolo di risarcimento del danno dalla data del licenziamento e sino alla reintegrazione, maggiorate degli interessi e delle spese legali, imputate al lavoratore in ragione del principio di soccombenza. La Corte d’Appello riteneva che i due comportamenti contestati, e valutati nel giudizio precedente come inidonei a ledere il vincolo fiduciario tra il lavoratore e il datore di lavoro, dovessero essere diversamente apprezzati, e pertanto riformava integralmente il giudicato di primo grado.
Il lavoratore proponeva ricorso per cassazione basando il suo ricorso sostanzialmente su tre motivi.
- come primo motivo invocava la violazione e falsa applicazione della norma contenuta nell’art. 18, comma quarto, l. 300/1970 (in tema di tutele per illegittimo licenziamento); violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. (in tema di recesso per giusta causa dal rapporto di lavoro subordinato), in combinato disposto con gli artt. 18, l. 300/1970; violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ.
- Con il secondo motivo deduceva l’omesso esame e/o la contraddittoria motivazione in ordine a un fatto controverso ai fini del giudicare, impugnando i capi della sentenza d’appello in cui veniva omesso l’esame della condotta riferibile al lavoratore dal punto di vista soggettivo.
- Con il terzo motivo lamentava la violazione e falsa applicazione sia del già citato art. 2119 cod. civ., sia dei canoni interpretativi stabiliti per la generale disciplina contrattuale dall’art. 1362 cod. civ., con specifico riferimento altresì a quanto previsto dal Contratto Collettivo
La Cassazione, esaminati tutti i motivi del ricorso, li riteneva trattabili congiuntamente, riconducendoli allo scioglimento di un’unica matassa.
Sottolinea innanzitutto come, nel suo primo motivo, il lavoratore abbia semplicemente ricalcato la linea ermeneutica in ordine alla contestazione disciplinare (alla sua qualificazione giuridica e alla reiterazione delle condotte) in modo adesivo rispetto a quella fornita dal Giudice di primo grado, poi sconfessata in appello in modo motivato.
In aggiunta a ciò, il ricorrente censurava la parte della sentenza d’Appello in cui la Corte, asseritamente, avrebbe trascurato di analizzare l’elemento soggettivo (dunque la maggiore o minore intensità del dolo o della colpa, a maggior ragione considerando che i fatti contestati al lavoratore intersecavano profili potenzialmente afferenti alla disciplina penale, con conseguente rafforzamento della rilevanza dell’elemento soggettivo), che avrebbe consentito una valutazione globale di tutta la vicenda, la quale invece sarebbe stata esaminata esclusivamente sotto il mero lato oggettivo della condotta del soggetto agente, impedendo di inquadrarlo correttamente: in tal proposito concludeva che non è stata offerta alcuna prova in ordine alla “massima volontà e massima rappresentazione” del lavoratore nel porre in essere la condotta di palpeggiamento ai danni della collega contestata dal datore di lavoro e posta a fondamento del provvedimento espulsivo.
La Cassazione smentiva la ricostruzione del ricorrente, ricordando come già il Tribunale di primo grado (dunque l’autorità che aveva emesso la sentenza più favorevole al ricorrente) avesse già evidenziato le finalità tutt’altro che goliardiche della condotta del lavoratore, certamente non riducibile a mero cameratismo, e anzi volto a causare una mortificazione psicologica della destinataria della sua “pacca”, a fortiori in ragione del ruolo gerarchicamente sovraordinato svolto dal ricorrente (cui le due dipendenti destinatarie dei comportamenti contestati si rivolgevano dandogli del “lei”).
Ciò posto, la Suprema corte in ordine ai primi due motivi rilevava come il giudice dell’appello avesse già correttamente considerato tutti gli elementi della fattispecie concreta, ivi compreso quello relativo all’elemento volitivo, da inquadrare, sulla scorta della precedente pronuncia, nell’ambito del dolo (o comunque della “volizione”).
Riguardo il terzo motivo la Suprema Corte respingeva la ricostruzione fatta dal lavoratore in virtù della quale il licenziamento (e la sua valutazione di legittimità effettuata dalla Corte d’Appello) sarebbe avvenuto “in applicazione” del combinato disposto delle norme, sia di legge sia di contratto collettivo di lavoro, richiamate nel motivo di ricorso, laddove invece la Corte d'appello si era limitata a richiamare gli articoli violati, censurando tuttavia la gravità in sé della condotta del lavoratore, di talché il motivo di ricorso, concretamente, si traduce nella richiesta di una diversa valutazione circa la gravità della condotta stessa, dalla quale, secondo il lavoratore ricorrente, non sarebbe emerso “alcun nocumento all’organizzazione lavorativa”: circostanza mai emersa nel giudizio, e certamente impossibile da introdurre quale fatto nuovo in sede di legittimità.
In definitiva la Cassazione rigettava il ricorso, valutando come legittimo il licenziamento irrogato e condannando il lavoratore al pagamento delle spese processuali.