Nel caso di specie un lavoratore agiva in giudizio per il risarcimento del danno alla salute asseritamente subito in relazione a atti e comportamenti adottati dal datore di lavoro nei suoi confronti.

Il Giudice di appello nel rigettare il ricorso del lavoratore e in riforma della sentenza del giudice di primo grado aveva affermato che nel caso in esame non era dato riscontare nei predetti atti e comportamenti datoriali quel comune intento persecutorio rappresentante un elemento costitutivo del c.d. mobbing, nonché delle ipotesi di c.d. straining. Riteneva inoltre che, sebbene fosse pacifico tra le parti che le accertate patologie del dipendente discendessero dallo stress lavoro-correlato, tale risultanza, disgiunta da un comportamento programmaticamente vessatorio da parte del datore di lavoro, non fosse sufficiente a far sorgere in capo al medesimo una responsabilità risarcitoria ex art. 2087 cod. civ.

Il lavoratore contro la sentenza della corte d'appello proponeva ricorso per Cassazione lamentando, tra l'altro, l'omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno differenziale per violazione dell'art. 2087 cod. civ. a prescindere dalla sussistenza di un intento vessatorio datoriale.

A fronte di tali censure, la Corte di Cassazione nel decidere l'accoglimento del ricorso con la sentenza del 19 gennaio 2024, n. 2084

ha affermato che al fine di rintracciare una responsabilità ex art. 2087 cod. civ. in capo al datore di lavoro non è necessaria, come ad esempio si richiede nel caso del mobbing, la presenza di un "unificante comportamento vessatorio", ma è sufficiente l'adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come l'adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici.

A fondamento della propria decisione la Corte ha ribadito la natura contrattuale della responsabilità del datore ex art. 2087 cod. civ., con tutte le conseguenze del caso, anche in tema di prescrizione e onere della prova. Sotto tale ultimo profilo, in particolare, la Cassazione ha ricordato che «il lavoratore che agisce per ottenere il risarcimento dei danni causati dall'espletamento dell'attività lavorativa non ha l'onere di dimostrare le specifiche omissioni datoriali», essendo, al contrario, «onere del datore di lavoro provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno» ritenendo, inoltre, che la «portata costituzionale della materia trattata» ha spinto ad ammettere che le condotte potenzialmente lesive dei diritti di cui si tratta siano «soggette a prove presuntive», di talché - a fronte di una pluralità di fatti emersi nel corso dell'istruttoria - sarebbe richiesto al Giudice di valutarli «tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri», restando esclusa la possibilità di valutarli, invece, «singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova». Chiarito ciò, la Cassazione ha, poi, richiamato un proprio precedente in materia, secondo cui, in relazione alla tutela della personalità morale e della salute del lavoratore - al di là della qualificazione come cc.dd. mobbing e straining - quello che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 cod. civ. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento, tra cui la sua integrità psico-fisica. Secondo la Suprema Corte, infatti, «la reiterazione, l'intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore che deve dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza»

 

La Corte di Cassazione Sezione Prima con ordinanza del 20 novembre 2018 n. 29911 ha ribadito l’indirizzo giurisprudenziale a tenore del quale il funzionario pubblico che abbia attivato un impegno di spesa per l'ente locale senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione risponde degli effetti di tale attività di spesa verso il terzo contraente, il quale è, pertanto, tenuto ad agire direttamente e personalmente nei suoi confronti e non già in danno dell'ente, essendo preclusa anche l'azione di ingiustificato arricchimento per carenza del necessario requisito della sussidiarietà, che è esclusa quando esista altra azione esperibile non solo contro l'arricchito, ma anche verso persona diversa.

Per quanto attiene al procedimento di riconoscimento di un debito fuori bilancio (previsto all’art. 194, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 267 del 2000, n. 267), secondo la Corte non può valere ad introdurre una sanatoria per i contratti nulli o, comunque, invalidi - come quelli conclusi senza il rispetto della forma scritta ad substantiam - ovvero a derogare al regime di inammissibilità dell'azione di indebito arricchimento di cui all’art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989.

 Sul punto, peraltro, la Suprema Corte in un’altra ordinanza30109 del 21 novembre 2018, ha precisato quando può avvenire il riconoscimento dei debiti fuori bilancio affermando “che resta esclusa l'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente, il quale può soltanto riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000 (cd. T.u.e.I.), nei limiti dell'utilità e dell'arricchimento per l'ente stesso puntualmente dedotti e dimostrati”. Tale riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita deliberazione dell'organo competente, e non può essere desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi rappresentativi, essendo esso insufficiente a esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative compiute.

Se ne ricava - conclude la Corte - che il funzionario pubblico non può attivare un impegno di spesa per l'ente locale senza un previo contratto e senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dello stesso, ossia al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme cosiddette di evidenza pubblica.

Alla luce del nuovo codice dei contratti ci si chiede se alla luce di quanto previsto dall’art. 52 circa le nuove modalità di controllo dei requisiti, se gli adempimenti previsti dall’art. 48-bis del DPR 602/73 siano ancora da fare.

Infatti, l’art. 52 del d.lgs 36/2023 nel caso di affidamenti diretti inferiori a € 40.000, la stazione appaltante è esonerata dall’obbligo di verifica puntuale dei requisiti dell’affidatario che deve attestare, con dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, la sussistenza dei requisiti di ordine generale e speciale richiesti per l’affidamento. Pertanto la S.A., in luogo di un controllo a carico di tutti gli affidatari, è obbligata soltanto a verificare le dichiarazioni rese dagli operatori economici, su un campione individuato ogni anno tramite sorteggio, con modalità predeterminate. 

Assume primaria importanza il momento di emissione del mandato di pagamento, poiché che l’Amministrazione può erogare le somme relative ad un determinato pagamento anche a distanza di tempo dalla verifica prevista dall’articolo 48-bis, è opportuno che la stessa sia effettuata a ridosso del pagamento stesso. Nel caso di una pluralità di pagamenti nei confronti dello stesso beneficiario (salva l’ipotesi di pagamenti contestuali, nel qual caso, si può ritenere sufficiente la stessa liberatoria per tutti i pagamenti in questione), un’unica liberatoria non è idonea a soddisfare le prescrizioni di cui all’articolo 48-bis. La verifica, infatti, dovrà essere espletata con riferimento a ciascuno dei pagamenti da effettuare. 

 

Alla luce del nuovo codice dei contratti ci si chiede se alla luce di quanto previsto dall’art. 52 circa le nuove modalità di controllo dei requisiti, se gli adempimenti previsti dall’art. 48-bis del DPR 602/73 siano ancora da fare. Infatti, l’art. 52 del d.lgs 36/2023 nel caso di affidamenti diretti inferiori a € 40.000, la stazione appaltante è esonerata dall’obbligo di verifica puntuale dei requisiti dell’affidatario che deve attestare, con dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, la sussistenza dei requisiti di ordine generale e speciale richiesti per l’affidamento. Pertanto la S.A., in luogo di un controllo a carico di tutti gli affidatari, è obbligata soltanto a verificare le dichiarazioni rese dagli operatori economici, su un campione individuato ogni anno tramite sorteggio, con modalità predeterminate. Nel presente lavoro analizziamo tale problematica.

Come previsto dall’articolo 2 del D.M. 40/2008, le Amministrazioni pubbliche, prima di effettuare il pagamento di un importo superiore a 5.000,00 euro, procedono alla verifica inoltrando un’apposita richiesta a Equitalia Servizi S.p.a. (agente della riscossione) la quale, avvalendosi del sistema informativo, controlla se risulta un inadempimento a carico del beneficiario e ne dà comunicazione al soggetto pubblico richiedente entro i 5 giorni feriali successivi alla ricezione della richiesta: ● beneficiario non inadempiente: nel caso in cui Equitalia comunichi che non risulta un inadempimento ovvero se non fornisca alcuna risposta entro i 5 giorni feriali, la Pubblica amministrazione può procedere al pagamento a favore del beneficiario delle somme spettanti, e l’operatore di verifica potrà stampare una liberatoria contenente gli estremi del controllo effettuato; ● beneficiario inadempiente: nel caso in cui Equitalia comunichi che il beneficiario risulta inadempiente, l’ente pubblico deve segnalare, con un’apposita comunicazione, tale circostanza (ai sensi dell’articolo 48-bis, comma 1, del D.P.R. 602/1973) all’agente della riscossione competente per territorio ai fini della riscossione delle somme iscritte a ruolo. Tale comunicazione deve contenere l’indicazione dell’importo totale del debito, comprensivo degli interessi di mora dovuti e delle spese di esecuzione.

Se l’ente pubblico riscontra posizioni debitorie connesse a cartelle notificate per un importo di pari o superiore 5.000 euro, è necessario sospendere il pagamento al beneficiario fino all’ammontare del debito rilevato per i 30 giorni successivi a quello della suddetta comunicazione. Se il pagamento è relativo ai crediti di cui all’articolo 545, terzo comma, del Codice di procedura civile (dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento), l’ente pubblico sospende il pagamento nei limiti previsti dal comma 4 dell’articolo 545 (pignoramento nella misura di 1/5 per i tributi dovuti allo Stato, alle Province e ai Comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito) e di cui all’articolo 2 del D.P.R. 180/1950. Nel caso in cui il contribuente debitore del Fisco a seguito dalla notifica di una o più cartelle di pagamento paghi il debito (anche parzialmente) durante la sospensione e prima della notifica dell’ordine di versamento, Equitalia lo comunicherà all’ente pubblico, indicando l’importo del pagamento che l’ente può conseguentemente effettuare a favore del beneficiario. Decorso il termine dei 30 giorni di sospensione del pagamento senza che il competente agente della riscossione abbia notificato l’ordine di versamento, l’ente pubblico può effettuare il pagamento delle somme spettanti al beneficiario.

 

Scadenza 

Ogni 16 del mese successivo al periodo di Riferimento con modello F24EP bisogna adempiere al versamento. Sebbene sia importante per il sostituto d’imposta provvedere al versamento entro i termini prescritti per evitare di incorrere in sanzioni amministrative e penali, è anche possibile regolarizzare spontaneamente le omissioni o i versamenti insufficienti. La procedura per regolarizzare le omissioni di versamenti o i versamenti insufficienti viene indicata come ravvedimento operoso. Essa prevede la riduzione delle sanzioni applicabili, il cui importo varia a seconda della tempestività del versamento e del tipo di violazione commessa. Nello specifico: 

  • se il ravvedimento operoso avviene entro i 14 giorni successivi rispetto alla scadenza da rispettare, le sanzioni sono pari allo 0.1% per ciascun giorno di ritardo (fino al 31 dicembre 2015 erano pari allo 0.2% per ciascun giorno); 

  • se il ravvedimento operoso avviene entro i 30 giorni successivi rispetto alla scadenza da rispettare, le sanzioni sono pari all’1,5% (fino al 31 dicembre 2015 erano pari al 3% per ciascun giorno); 

  • se il ravvedimento operoso avviene entro i 90 giorni successivi alla scadenza da rispettare, le sanzioni sono pari a un nono del minimo (il minimo è di 258 euro); 

  • se il ravvedimento operoso avviene entro il termine da rispettare per la presentazione della dichiarazione dell’anno in corso, le sanzioni sono pari a un ottavo del minimo; 

  • se il ravvedimento operoso avviene entro il termine da rispettare per la presentazione della dichiarazione dell’anno seguente, le sanzioni sono pari a un settimo del minimo. 

La procedura che deve essere seguita da chi intende regolarizzare una ritenuta d’acconto in ritardo è molto semplice: per sanare la mancanza non bisogna fare altro che compilare il modello F24EP e inserire il codice relativo alla ritenuta d’acconto, che corrisponde al codice tributo 104E o 100E. Per ciò che concerne la somma complessiva da pagare, mentre gli interessi calcolati nella misura legale vanno inclusi nell’importo della ritenuta, le sanzioni vanno invece pagate con codice tributo 890. 

Sanzione 

L’omesso versamento delle ritenute d’acconto da parte dei sostituti d’imposta comporta per gli stessi l’applicazione di sanzioni amministrative e penali. 

Se il sostituto d’imposta non opera in tutto o in parte le ritenute alla fonte, va incontro a diverse sanzioni amministrative: 

  • 20% dell’ammontare non trattenuto in caso di versamento parziale; 

  • 30% dell’importo non versato in caso di mancato versamento delle ritenute. 

Nell’ipotesi di ritenute non versate e non operate sono applicabili entrambe le sanzioni. L’ipotesi di reato per omesso versamento delle ritenute si concretizza al superamento di una determinata soglia non versata alla scadenza del termine di presentazione della dichiarazione annuale. Per omesso versamento ritenute superiore a 50.000 euro per ciascun periodo d’imposta che non viene sanato entro il termine previsto per la dichiarazione dei redditi, il sostituto d’imposta verrà punito con la reclusione per un periodo che va da 6 mesi a 2 anni in base all’articolo 10 bis del decreto legislativo 74/2000.