Non sono computabili nel periodo di comporto le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale qualora abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell'ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa ed altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all'obbligazione contrattuale, a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, per la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata.

La Suprema Corte nel caso in questione ha richiamato il principio secondo il quale «Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro e malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell'art. 2110 cod. civ., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre affinché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia origini professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista un responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. (Cass. 5413 del 2003 cit; Cass. 22248 del 2004; Cass. 26307 del 2014; Cass. 15972 del 2017; Cass. n. 26496 del 2018)».

Corte di Cassazione Lav. 4 febbraio 2020, n. 2527