Nell'ipotesi di sopravvenuta inidoneità fisica del dipendente affetto da disabilità, è onere del datore di lavoro valutare la possibilità di reimpiego del medesimo in mansioni compatibili con il suo stato di salute e verificare a tal fine la praticabilità, sotto il profilo economico ed organizzativo, di "accomodamenti ragionevoli".
La dipendente licenziata per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione ha impugnato il licenziamento deducendo tra l'altro la natura discriminatoria ed evidenziando che, a seguito del giudizio di inidoneità alla mansione formulato dal medico competente, il datore di lavoro non aveva adottato le idonee misure, anche ex art. 3, comma 3 bis, d. lgs. 216/03, per reperirle un'altra mansione, compatibile con il suo stato di salute, violando altresì l'obbligo di repêchage.
La Corte di Appello nell'annotata sentenza ha ricordato in primo luogo il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui "l'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966 e artt. 1463 e 1464 cod. civ.) non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore" (cfr. Sez. Un., Sentenza n. 7755/1998; conformi ex multis: Cass. n. 7210/2001; Cass. n. 15593/2002; Cass. n. 8832/2011).
Nel circoscrivere gli oneri probatori del datore di lavoro, la Corte di Appello ha richiamato inoltre, essendo la lavoratrice licenziata affetta da disabilità, il comma 3 bis dell'art. 3 d.lgs. 216/2003, secondo cui: «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. (…)».
Alla stregua della citata disposizione, ha osservato la sentenza in commento, nell'individuare le residue possibilità di un utile e corretto inserimento nella struttura aziendale del dipendente divenuto inidoneo, il datore di lavoro è tenuto a verificare la praticabilità degli eventuali "accomodamenti ragionevoli" (ad esempio adattamenti delle mansioni o dell'orario di lavoro), che, senza tradursi in uno sproporzionato aggravio di costi e in un apprezzabile pregiudizio per l'impresa, consentano al lavoratore l'espletamento dell'attività lavorativa e la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Quindi, la possibilità di reimpiego del lavoratore, sufficiente ad escludere la legittimità del licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica, non trova più il proprio limite nell'assoluta immutabilità dell'assetto organizzativo stabilito dall'imprenditore, bensì nell'obiettiva impraticabilità e "irragionevolezza", sotto il profilo economico o tecnico-organizzativo, dei possibili adattamenti di tale assetto alle mutate condizioni di salute del dipendente.
La Corte di Appello accertato che, nella fattispecie sottoposta al suo esame, il datore pur disponendo di una posizione lavorativa vacante aveva ritenuto di assegnarla ad una collega della ricorrente, ha ritenuto che, nella specie, il datore non avesse assolto all'onere di dimostrare l'impossibilità di adibire la reclamante a mansioni equivalenti o inferiori e compatibili con il suo stato di salute, anche mediante "accomodamenti ragionevoli", nel caso concreto certamente esigibili.
Pertanto, secondo la Corte, l'accertata illegittimità del licenziamento legittimava l'applicazione dell'art. 18, comma 7, legge 300/70, che richiama il comma 4, senza attribuire al giudice alcuna discrezionalità (cfr. Cass. n. 24377/15; Cass. n. 19774/2016; Cass. n. 18020/2017, Cass. n. 26675/18; Cass. n. 32158/18).
Corte di Appello di Torino, sentenza del 20 luglio 2020, n. 283










