La fruizione del permesso sindacale previsto dall'art. 30 Stat. Lav. per un fine diverso da quello normativamente previsto, pur integrando in astratto una condotta disciplinarmente rilevante, non integra ex ante una giusta causa di recesso.

Invero, sarà onere del giudice di merito formulare un giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva, sulla base dell'integrazione della clausola generale di cui all'art. 2119 c.c., verificando, in concreto, la gravità della condotta del lavoratore.

Il datore di lavoro nel proporre ricorso per cassazione ha rilevato che i permessi retribuiti di cui all'art. 30 della L.300/1970 possono essere concessi dal datore di lavoro per la partecipazione alle riunioni degli organi sindacali, non per fini diversi e che l'indebito utilizzo di tali permessi ha un disvalore sociale rilevante che giustifica il recesso per giusta causa, incidendo sull'elemento fiduciario tra le parti del rapporto di lavoro.

La Corte di Cassazione, per quanto qui rileva, ha ritenuto infondato il ricorso del datore di lavoro ritenendo che la fruizione del permesso sindacale previsto dall'art. 30 Stat. Lav. per un fine diverso da quello normativamente previsto, pur integrando in astratto una condotta disciplinarmente rilevante, stante la mancanza della prestazione lavorativa per una causa imputabile allo stesso lavoratore, non integri ex ante una giusta causa di recesso.

Ed infatti - ritiene la Suprema Corte - "la astratta rilevanza disciplinare della condotta, contestata nello specifico in termini di assenza arbitraria dal lavoro, non esonera però dal verificare in concreto la gravità della condotta contestata e la sua sussumibilità nella giusta causa di licenziamento ritenuta sussistente dalla datrice di lavoro. Si rende necessario perciò un giudizio di proporzionalità che è demandato al giudice di merito".

La Suprema Corte ritiene dunque che la Corte d'Appello, pur non escludendo il disvalore della condotta, abbia correttamente formulato un giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto alla nozione di giusta causa e alle ipotesi sanzionate dal contratto collettivo applicato.

Prosegue la Corte affermando che l'operazione svolta dalla Corte territoriale è coerente con la giurisprudenza di legittimità, la quale ha chiarito che giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, "allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama".In questa prospettiva, la giurisprudenza di Cassazione ha sottolineato il rilievo che assume, nell'individuazione delle ipotesi disciplinarmente rilevanti, la scala valoriale espressa nel contratto collettivo e la relativa graduazione delle sanzioni. Per tali ragioni, con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ritiene che l'operazione di sussunzione e verifica della proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta contestata sia stata svolta dalla Corte territoriale correttamente e non risulta validamente inficiata dalle deduzioni della società ricorrente in tema di configurabilità di un'ipotesi di abuso del diritto nel comportamento del lavoratore.

Corte di Cassazione, Sez. Lav. 9 marzo 2021, n. 6495