L’uso del cellulare in classe è diventato il simbolo delle contraddizioni della scuola contemporanea: da un lato strumento potente di conoscenza e comunicazione, dall’altro fonte costante di distrazione, conflitti e violazioni della privacy.
La recente presa di posizione della giurisprudenza e del Ministero dell’Istruzione ha chiarito un punto spesso frainteso: il docente non può sequestrare il cellulare dell’alunno, nemmeno in caso di utilizzo scorretto durante le lezioni. Una regola che afferma un principio fondamentale – la tutela della proprietà personale – ma che lascia aperto un grande interrogativo: come gestire concretamente la questione in classe?
Il divieto di sequestro non è un atto di lassismo, ma l’applicazione di un principio di diritto. Né il docente né il dirigente scolastico hanno il potere di privare temporaneamente uno studente di un bene personale, se non per motivi di sicurezza o per disposizioni dell’autorità giudiziaria.
Le circolari ministeriali (in particolare la n. 30 del 2007 e le successive linee guida sull’educazione digitale) stabiliscono che l’uso del cellulare durante le lezioni è vietato, ma le eventuali sanzioni devono essere disciplinari, non coercitive. In altre parole, l’alunno può essere richiamato, segnalato o sanzionato secondo il regolamento d’istituto, ma non gli si può togliere fisicamente il telefono.
Tale limite è coerente con l’art. 42 della Costituzione, che tutela la proprietà privata, e con l’art. 13, che garantisce la libertà personale. Confiscare il telefono significherebbe, in termini giuridici, esercitare un potere non previsto dall’ordinamento.
La responsabilità dell’insegnante resta dunque educativa, non repressiva.
La questione va oltre il diritto: è una sfida pedagogica. La scuola non può limitarsi a vietare; deve insegnare a gestire. Il vero obiettivo non è sottrarre lo strumento, ma educare al suo uso consapevole.
Il cellulare, infatti, non è solo un oggetto: è un’estensione identitaria per i ragazzi, un mezzo di relazione, di ricerca e di espressione. La sua presenza in classe riflette la società in cui vivono, non una devianza da correggere.
Proibire in modo assoluto rischia di rafforzare la trasgressione; regolamentare con intelligenza, invece, permette di promuovere autocontrollo, rispetto e senso civico digitale. È questo il compito della scuola del XXI secolo: non proteggere gli studenti dal mondo, ma prepararli a viverci.
La soluzione più efficace è il patto educativo di corresponsabilità, previsto dal D.P.R. 249/1998, che deve essere aggiornato anche alla luce delle sfide digitali.
Le regole sull’uso dei dispositivi dovrebbero essere costruite insieme: dirigenti, docenti, genitori e studenti. Non si tratta di un mero elenco di divieti, ma di un accordo pedagogico che chiarisce diritti, doveri e conseguenze.
Ecco alcune strategie adottate con successo in diversi istituti:
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“zone no phone” in classe e nei corridoi, ma spazi autorizzati per ricerche o attività multimediali;
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custodie personali sigillate che permettono di tenere il telefono spento senza separarsene fisicamente;
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laboratori di educazione digitale dove gli studenti stessi progettano campagne sull’uso corretto dei dispositivi;
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monitoraggi periodici sull’impatto del digitale sul benessere scolastico.
Il principio di fondo è la co-regolazione: le regole funzionano quando chi le deve rispettare partecipa a scriverle.
Esistono anche esperienze didattiche che mostrano come il cellulare possa diventare uno strumento educativo, se guidato da un progetto coerente.
In discipline come geografia, scienze o lingue straniere, l’uso di app, ricerche geolocalizzate o strumenti di realtà aumentata può trasformare il telefono in un laboratorio tascabile.
L’importante è che l’attività sia pianificata: il cellulare deve servire a potenziare l’apprendimento, non a sostituire la relazione educativa.
Un uso consapevole, supervisionato e progettuale può perfino migliorare la motivazione, perché permette agli studenti di riconoscere valore formativo in ciò che appartiene al loro quotidiano.
Tuttavia, è necessario vigilare sui rischi: la distrazione, il multitasking e la sovraesposizione agli schermi riducono la concentrazione e la memoria a lungo termine. Per questo è indispensabile alternare momenti digitali e momenti analogici, recuperando il valore del silenzio e dell’ascolto.
Ogni scuola deve dotarsi di un regolamento d’istituto aggiornato che disciplini in modo chiaro l’uso dei dispositivi mobili.
Il regolamento dovrebbe definire:
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le situazioni in cui l’uso è consentito (ricerca, emergenza, attività didattiche specifiche);
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le sanzioni disciplinari in caso di violazione;
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le misure di tutela della privacy (divieto assoluto di registrare o diffondere immagini o audio).
Inoltre, è consigliabile che il collegio docenti promuova corsi di educazione civica digitale, in linea con la Legge 92/2019, per aiutare studenti e famiglie a comprendere i rischi legati alla diffusione di contenuti, cyberbullismo, dipendenza e disinformazione.
Un ulteriore aspetto riguarda la tutela della privacy scolastica. Scattare foto o registrare lezioni senza consenso è vietato dal Regolamento UE 679/2016 (GDPR) e può configurare violazioni disciplinari o, nei casi più gravi, penali.
Il sequestro del cellulare non è dunque l’unico comportamento illegittimo: anche l’uso improprio dello stesso da parte dell’alunno può generare responsabilità.
Educare alla privacy diventa allora parte integrante della formazione civica: imparare a rispettare il diritto all’immagine e alla riservatezza è un dovere tanto quanto conoscere la grammatica o la matematica.
L’esperienza dimostra che l’approccio punitivo produce solo resistenza e conflitto, mentre la responsabilizzazione genera maturità. Gli studenti devono essere coinvolti nel riflettere sulle ragioni delle regole: perché si limita l’uso del telefono? Che cosa si perde – e che cosa si guadagna – stando connessi in ogni momento?
La scuola può diventare un luogo dove si impara non solo a “non usare” il cellulare, ma a scegliere quando usarlo. È una competenza complessa, che unisce autocontrollo, empatia e consapevolezza digitale.
In definitiva, il divieto di sequestro del cellulare non rappresenta una resa dell’autorità scolastica, ma un invito a ripensare l’educazione nell’era digitale.
L’insegnante non è più il custode del silenzio, ma il regista dell’attenzione; non il controllore, ma il mediatore.
Serve una scuola che insegni a gestire la connessione, non a negarla, e che formi cittadini capaci di equilibrio tra mondo virtuale e reale.
Educare oggi significa insegnare a disconnettersi quando serve, riconoscendo che la libertà digitale non è assenza di regole, ma capacità di scegliere responsabilmente.