La tematica della fattispecie di abuso di ufficio è ritornata recentemente sotto l’attenzione dei commentatori a seguito della questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la legge abrogatrice della disposizione di cui all’art. 323 c.p.
In particolare, il Tribunale di Firenze, con ordinanza depositata in data 24 settembre 2024, ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’art. 1, primo comma, lett. b) della legge 114/2024, in riferimento, da un lato, all’art. 97 Cost. e dall’altro, agli articoli 11 e 117, primo comma, della Costituzione, rispetto agli artt. 7, comma 4, 19 e 65, comma 1 della Convenzione di Merida, adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu il 31 ottobre 2003, ratificata dall’ordinamento italiano il 9 dicembre 2003 e resa esecutiva con l. 116/2009.
Ad avviso dei giudici fiorentini, infatti, l’effetto abrogativo realizzato dalla c.d. riforma Nordio sul reato di abuso di ufficio non risulterebbe compatibile con la Carta Fondamentale, in quanto lesivo dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali assunti dallo Stato italiano con la sottoscrizione della Convenzione delle Nazioni Unite di contrasto ai fenomeni corruttivi.
Come noto, infatti, a partire dalla riforma del Titolo V, parte seconda della Costituzione ad opera della l. cost. 3/2001 e dalle note sentenze gemelle della Corte Costituzionale nn. 348 e 349 del 2007, l’esercizio della potestà legislativa statale e regionale rinviene un limite invalicabile nel rispetto del contenuto precettivo delle norme internazionali di natura pattizia. Queste ultime, dunque, incidono sulla discrezionalità politica del Legislatore nazionale in una duplice prospettiva: da un lato, nell’adozione di una disciplina legislativa innovativa, l’obbligo internazionale sancisce un dovere di intervento aderente al Trattato; dall’altro, in relazione alla modificazione o abrogazione di una disciplina nazionale già vigente nell’ordinamento che risulti conforme al contenuto precettivo di fonte internazionale, tale principio impone un divieto di modificazione in senso difforme rispetto a quanto previsto dal trattato sottoscritto e ratificato.
Proprio su questa dicotomia si sostanzia l’iter argomentativo seguito dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione alla Corte.
L’adesione da parte dell’ordinamento giuridico italiano alla Convenzione ONU contro la corruzione, infatti, ha imposto specifici obblighi di contrasto non soltanto in relazione alle forme di pactum sceleris di natura corruttiva in senso stretto, ma a qualsiasi commistione occulta tra interessi privati e interessi pubblici all’interno della Pubblica Amministrazione. Proprio la diffusione sistemica di queste forme velate di indirizzamento dell’azione amministrativa (il recente Report elaborato da Transparency International colloca l’Italia al 41° posto su 180 Paesi oggetto di analisi rispetto all’indice di percezione di fenomeni corruttivi nel settore pubblico) rappresenta un ostacolo insormontabile al perseguimento effettivo delle finalità assegnate dalla Costituzione e dalla legislazione di attuazione – in particolare, la l. 241/1990 - al funzionamento dell’Amministrazione Pubblica: il principio di legalità, il buon andamento, la pubblicità, la trasparenza e l’imparzialità.
Proprio nel perseguimento delle descritte finalità, la Convenzione di Merida, specificamente il Titolo III, ha previsto mirati obblighi di criminalizzazione in capo agli Stati aderenti in relazione a differenti condotte volte a orientare illegittimamente l’agire amministrativo, quali la corruzione in senso stretto (art. 15 del Trattato), il peculato (art. 17), il millantato credito (art. 18) e, per quanto concerne l’ordinanza in commento, l’abuso di ufficio (art. 19).
Pertanto, nel comune obiettivo di vincolare gli Stati aderenti alla Convenzione all’adozione di specifiche misure nazionali di carattere penale inerenti le condotte descritte, il Trattato prevedeva disposizioni convenzionali caratterizzate da un diverso grado di precettività, garantendo così un livello di discrezionalità politica variabile agli Stati aderenti nell’adempimento di tali obblighi internazionali.
In particolare:
- le previsioni convenzionali (quale quella dell’art. 15, relativa alla corruzione), costruite intorno alla formulazione “Each State Party shall adopt” delineano un vero e proprio obbligo di criminalizzazione, eliminando qualsiasi margine di apprezzamento in capo allo Stato aderente;
- in secondo luogo, le disposizioni che fanno uso della locuzione “Each State Party shall consider adopting” (ad esempio, l’art. 19, relativa proprio alla fattispecie di abuso di ufficio) configurano un obbligo internazionale di minore precettività, imponendo agli Stati aderenti di valutare concretamente la compatibilità della figura di reato di riferimento rispetto al proprio sistema penale;
- da ultimo, le previsioni con il sintagma “Each State Party may adopt” (quale l’art. 27, comma 2 relativo alla forma tentata delle fattispecie criminose disciplinate negli articoli precedenti) delineano delle previsioni inidonee a generare un obbligo internazionale per le Parti aderenti, configurando una mera facoltà di recepimento a livello nazionale.
Proprio attorno a questi tre differenti modelli di politica criminale ruota l’argomentazione svolta nella questione di legittimità costituzionale prospettata dal Tribunale di Firenze.
In relazione alla fattispecie di abuso di ufficio, infatti, il nodo problematico si sostanzia nella pre-esistenza all’interno dell’ordinamento giuridico italiano del modello penale di riferimento rispetto al momento di ratifica della Convenzione di Merida.
In questo modo, dunque, la valutazione di compatibilità di tale figura di reato con l’ordinamento nazionale – imposta dalla formula “Each State Party shall consider adopting” utilizzata dall’art. 19 della fonte internazionale pattizia – risulta essere stata già pienamente assolta nel momento di introduzione dell’art. 323 c.p. all’interno della codificazione penale (ancor prima con l’art. 175 del Codice Zanardelli).
Pertanto, secondo l’ordinanza di rimessione del giudice a quo, l’obbligo imposto dalla fonte internazionale nei confronti di quegli Stati aderenti che hanno già previsto forme di criminalizzazione delle condotte tipiche della fattispecie di abuso di ufficio, si sostanzierebbe in un obbligo di mantenimento (c.d. standstill clause) di tali fattispecie incriminatrice all’interno del sistema legale di riferimento, con conseguente divieto di abrogazione di tale disposizione. In altri termini, il contenuto dell’obbligo dell’“obligation to consider criminalization” risulterebbe violato da un intervento legislativo nazionale abrogativo della disposizione incriminatrice che ha reso conforme l’ordinamento statuale alla pattuizione internazionale relativa alla condotta di abuso di ufficio.
Proprio in considerazione delle argomentazioni precedenti, l’ordinanza di rimessione dubita della legittimità costituzionale dell’intervento abrogativo realizzato con la Riforma Nordio, in quanto lesivo della Convenzione di Merida quale parametro interposto dell’art. 117, primo comma Cost.
Specularmente, con un secondo motivo di legittimità costituzionale, i giudici rimettenti sollevano una questione di compatibilità dell’intervento riformatore rispetto all’art. 97 della Carta Fondamentale.
Affrontando l’abrogazione dell’abuso d’ufficio in una prospettiva di sistematica codicistica (in relazione alle fattispecie di cui agli art. 314 bis e 346 bis c.p.), infatti, il giudice a quo sostiene una lesione dei principi di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione, in quanto l’intervento abrogativo non ha previsto contestualmente alcun forma di tutela (non necessariamente penale) rispetto al bene giuridico tutelato dalla disposizione incriminatrice.
In altri termini, come osservato in precedenza, non è stata inserita alcuna disposizione a carattere sanzionatorio rispetto alla condotta del pubblico ufficiale che, in una situazione di conflitto di interessi, non adempia all’obbligo di astensione ovvero, violando specifiche regole di condotta previste da fonti legislative, procuri a sé o ad altri un vantaggio indebito.
Come osservato dai primi commentatori dell’ordinanza di rimessione, tale censura di illegittimità risulta non pienamente convincente, sotto due distinti profili.
Da un lato, infatti, la costante giurisprudenza costituzionale protende a valorizzare in modo particolarmente ampio la discrezionalità del Legislatore in relazione ad interventi di politica criminale, mantenendo un tendenziale approccio di self-restraint rispetto al sindacato di legittimità su tali interventi riformatori; dall’altro (come recentemente affermato nella sentenza 8/2022), la valutazione in merito al livello di tutela minimo di un determinato bene giuridico di rango costituzionale deve essere oggetto di vaglio ad ampio spettro, verificando che tali esigenze costituzionali di tutela vengano soddisfatti con strumenti differenti dalla sanzione penale, intesa quale extrema ratio, ma anche da altri precetti o disposizioni a carattere afflittivo.
Ad ogni modo, la pronuncia della Corte Costituzionale rispetto alla questione prospettata assume una rilevanza di primo piano, non soltanto in relazione alla possibile reviviscenza di una fattispecie di reato oggetto di vivo dibattito da tempo risalente, ma anche – in termini più generalmente politici – sulla possibile caducazione dell’intervento riformatore elevato a “cavallo di battaglia” dall’attuale maggioranza di Governo in materia di Giustizia.
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di Francesco Baccolini, Avvocato del Foro di Bologna