In tema di procedimento disciplinare al lavoratore deve essere riconosciuta la possibilità di piena esplicazione del diritto di difesa e, quindi, anche la possibilità, dopo avere presentato giustificazioni scritte senza formulare alcuna richiesta di audizione orale, di maturare "un ripensamento" circa la maggiore adeguatezza difensiva della rappresentazione (anche) orale degli elementi di discolpa. Al datore di lavoro è precluso ogni sindacato, anche sotto il profilo della conformità e correttezza a buona fede, della condotta del dipendente con riferimento alla necessità o opportunità della richiesta integrazione difensiva essendo la relativa valutazione rimessa in via esclusiva al lavoratore.
La Suprema Corte ritiene che, in assenza di elementi di segno contrario desumibili dal dato testuale dell'art. 7, Stat. Lav. ed in particolare dai commi 2 e 5, «al lavoratore deve essere riconosciuta la possibilità di piena esplicazione del diritto di difesa e, quindi, anche la possibilità, dopo avere presentato giustificazioni scritte senza formulare alcuna richiesta di audizione orale, di maturare "un ripensamento" circa la maggiore adeguatezza difensiva della rappresentazione (anche) orale degli elementi di discolpa. Al datore di lavoro è precluso ogni sindacato, anche sotto il profilo della conformità e correttezza a buona fede, della condotta del dipendente con riferimento alla necessità o opportunità della richiesta integrazione difensiva essendo la relativa valutazione rimessa in via esclusiva al lavoratore.
Non vi sono ragioni - chiarisce la Suprema Corte - per limitare l'ampiezza di esplicazione del diritto di difesa, che il legislatore ha voluto preordinato alla tutela di interessi fondamentali del lavoratore (specie ove si consideri che l'esercizio del potere disciplinare può comportare anche l'adozione della sanzione espulsiva), in assenza di un apprezzabile interesse contrario della parte datoriale, la quale riceve comunque adeguata tutela dalla stringente cadenza temporale che regola il procedimento disciplinare».
Cass. Sez. Lav. 22 settembre 2020, n. 19846