La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra un'ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione, comportando il postare un commento su Facebook la pubblicizzazione e diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, tra cui il datore di lavoro, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno deve essere valutato in termini di giusta causa, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.
La pronuncia della Corte di Cassazione riguarda l'idoneità della condotta di un lavoratore - consistita nella pubblicazione su una bacheca virtuale di espressioni manifestanti disprezzo nei confronti del datore di lavoro - ad integrare una giusta causa licenziamento ex art. 2119 cod. civ.
Nel caso specifico il licenziamento disciplinare era motivato dalla pubblicazione da parte di un dipendente sulla propria bacheca Facebook di un post «in cui si esprimeva disprezzo per l’azienda ("mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e per la proprietà")», con agevole identificabilità dell'obiettivo dell'espressione spregiativa.
Secondo la corte di Cassazione la giusta causa di licenziamento può essere integrata anche da un comportamento di natura colposa, allorché sia idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l'ulteriore prosecuzione del rapporto. Conclusione, questa, che a giudizio della Cassazione appare corretta, attesa la mancanza di ogni segno di resipiscenza dopo la fase reattiva da parte del lavoratore, che era andato ben oltre il contegno diffamatorio, laddove aveva, altresì, prospettato il ricorso a malattie asintomatiche in caso di dissensi con la società datrice; e ciò, vieppiù rilevante, da parte di soggetto caratterizzantesi per documentata e frequente morbilità. Ciò che, per i Giudici di legittimità, unitamente alla ravvisata mancanza di correlazione tra ambiente lavorativo e stress da lavoro, accertata in sede istruttoria, rendeva ragione della esaustività della valutazione compiuta dalla Corte territoriale, non essendo rilevabile dal contenuto della decisione di merito che fosse specificamente in discussione la capacità di comprensione e l’equilibrio psichico del dipendente.
In definitiva - conclude la Suprema Corte - la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook integra un'ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione, comportando il postare un commento su Facebook la pubblicizzazione e diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno deve essere valutato in termini di giusta causa, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.
Corte di Cassazione Sez. Lav. 27 aprile 2018, n. 10280