Una vicenda apparentemente modesta - una multa di poche ore di retribuzione - si è trasformata in occasione per la Corte di Cassazione di chiarire principi centrali sul procedimento disciplinare nel comparto scolastico. Con la sentenza n. 25519/2025 del 17 settembre, la Suprema Corte ha rinforzato la cornice giuridica che regola sanzioni, diritti di difesa e competenze interne alle istituzioni scolastiche.

Il caso trae origine da una contestazione disciplinare elevata dal dirigente scolastico, che ha sanzionato un dipendente con una decurtazione corrispondente a quattro ore lavorative. Il dipendente, ritenendo il procedimento viziato, ha impugnato la sanzione adducendo molteplici motivi: il dirigente non avrebbe avuto competenza; il procedimento avrebbe violato norme procedurali; il codice disciplinare non sarebbe stato adeguatamente reso noto; la sede di lavoro era insalubre, giustificando il rifiuto della prestazione e la pena non sarebbe proporzionata ai fatti.

Dal punto di vista giuridico, ogni punto sollevato era delicato: riguarda tanto l’organizzazione interna della scuola quanto i diritti fondamentali del lavoratore. La Corte ha dovuto far dialogare norme del pubblico impiego, principi costituzionali, Statuto dei lavoratori e contrattazione collettiva.

La Corte ha affermato con chiarezza che, nelle ipotesi di infrazioni “di minore gravità”, il dirigente scolastico è l’autorità competente a irrogare una sanzione come la multa. Si colloca, cioè, tra il rimprovero e la sospensione: una misura disciplinare intermedia prevista dal CCNL scuola (art. 94) e disciplinata anche dal D.Lgs. 165/2001. In questo caso, la multa rientra nello spettro delle competenze del dirigente.

Non è necessario che la notifica del procedimento disciplinare avvenga con firme digitali particolari: quando il dipendente ha una casella PEC idonea, l’invio tramite essa è valido. Quanto al codice disciplinare, la Corte ha ritenuto che la sua pubblicazione sul sito internet dell’istituto costituisca forma valida di pubblicità nei confronti degli interessati, rendendo irrilevante la mancanza dell’affissione fisica in bacheca.

L’ordinanza precisa che, nel procedimento disciplinare, la richiesta di rinvio per grave impedimento spetta esclusivamente al lavoratore convocato, non al suo rappresentante o legale. Il ruolo del difensore è di assistenza: non può sostituire la capacità decisionale del dipendente stesso nel domandare la dilazione del contraddittorio.

Il lavoratore aveva rifiutato di prestare servizio nella sede assegnata, denunciando condizioni insalubri. La Corte ha considerato questo rifiuto un atto di insubordinazione, nel caso in cui il dipendente non dimostri concretamente danni alla salute correlati all’ambiente. Nel caso in esame, non sono state prodotte prove sufficienti, per cui non ha trovato giustificazione l’inadempimento volontario.

La Corte ha ricordato che la valutazione della proporzionalità - cioè se la sanzione è adeguata rispetto alla gravità dell’infrazione - è materia di merito e non è sindacabile in sede di legittimità, a condizione che il giudice di grado abbia fornito motivazione esaustiva e congrua.

Questa decisione ha un impatto rilevante per il personale scolastico e per le strutture dirigenziali. Da un lato, conferma che le scuole - nei casi di infrazioni non gravi - hanno autonomia disciplinare affidata al dirigente: una responsabilità non delegabile e anzi da esercitare con scrupolo procedurale. Dall’altro lato, stabilisce che il rispetto delle garanzie del lavoratore - dalla notifica al contraddittorio fino alla trasparenza del codice disciplinare - non è un optional, bensì condizione imprescindibile per la legittimità del provvedimento.

In un contesto in cui la tecnicità dei procedimenti disciplinari spesso crea contenziosi, la Cassazione ha voluto tracciare paletti netti: procedure chiare, diritti rispettati, decisioni motivabili. In questo modo, la giurisprudenza scolastica si allinea ai principi generali del diritto del lavoro pubblico, ma con attenzione alle specificità dell’ambiente scolastico.