In tema di congedo straordinario per l’assistenza ai disabili, la Corte di Cassazione Sez. Lav., con la sentenza del 18 ottobre 2021, n. 28606, ha affermato che l’assistenza che legittima il beneficio a favore del lavoratore, pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi adeguati alle personali esigenze di vita, deve comunque garantire al familiare disabile un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale. Soltanto ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede che genera la responsabilità del dipendente.

Con riguardo alla proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito verificare la congruità della sanzione espulsiva tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni ed alla natura e tipologia del rapporto medesimo.

La vicenda trae origine dal licenziamento disposto nei confronti di un dipendente per abuso nell'utilizzo dei permessi per l'assistenza a soggetti disabili. Avverso il licenziamento il dipendente proponeva ricorso che il giudice di primo grado accoglie. Contro tale decisione il datore propone ricorso in appello. La Corte d’Appello, riformando la decisione resa dal Tribunale, dichiarava la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che, durante un giorno di permesso per l’assistenza ad un familiare disabile, aveva svolto attività estranee rispetto alla dovuta assistenza, con ciò concludendo che da tale comportamento fosse derivata una irrimediabile lesione del vincolo fiduciario.

Avverso la decisione della Corte d'Appello il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, inter alia, la violazione e falsa applicazione dell’art. 33, L. 104/1992, in tema di permessi a familiari disabili.

La Suprema Corte ha ribadito, innanzitutto, il proprio consolidato orientamento secondo cui l’assistenza che legittima il beneficio del permesso a favore del lavoratore, pur non potendosi intendere esclusiva al punto da impedire al lavoratore medesimo di dedicare spazi adeguati alle proprie personali esigenze di vita, deve comunque essere tale da garantire al familiare disabile un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale.

La Suprema Corte ha quindi affermato che si è quindi in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto a tali permessi – e pertanto di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede – soltanto qualora venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile (in tal senso, Cass. 19580/2019).

La Corte d'Appello aveva fatto corretta applicazione di questo principio giurisprudenziale, ritenendo non compatibile con lo svolgimento di attività assistenziale l’essersi il lavoratore recato, durante il permesso, prima presso un hotel gestito dalla moglie, poi presso un negozio di proprietà della stessa, che aveva aperto con le proprie chiavi e presso cui si era trattenuto per poi recarsi nuovamente in hotel. Non è stato, invece, reputato sufficiente ai fini del legittimo uso del permesso il fatto che il dipendente si fosse trattenuto presso la propria abitazione per quarantacinque minuti per preparare un pasto per il familiare disabile non convivente.

Con riguardo alla proporzionalità tra il fatto contestato al lavoratore e il provvedimento espulsivo, la Suprema Corte richiama ancora una volta il proprio consolidato orientamento secondo cui, a tal fine, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere che la prosecuzione del rapporto di lavoro sia pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo invece determinante la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile – per le concrete modalità e il contesto di riferimento – di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza. La congruità del licenziamento deve essere effettuata dal giudice di merito, non con una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, attribuendo rilievo alla qualificazione del fatto operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni ed alla natura e tipologia del rapporto medesimo (in tal senso, Cass. 17321/2020).Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso è stato rigettato.

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